La mediazione familiare
“La mediazione familiare è un percorso per la riorganizzazione delle relazioni familiari in vista o in seguito alla separazione o al divorzio in un contesto strutturato il mediatore familiare, come terzo neutrale e con una preparazione specifica, sollecitato dalle parti, nella garanzia del segreto professionale e in autonomia dall’ambito giudiziario, si adopera affinché i partner elaborino in prima persona un programma di separazione soddisfacente per sé e per i figli, in cui possono esercitare la comune responsabilità genitoriale.” Con queste parole, nel 1995, la Società Italiana di Mediazione Familiare (SIMEF) ha definito le funzioni della mediazione familiare, un intervento che alla presenza di un conflitto pone un terzo all’esterno di due o più parti nel tentativo di riorganizzare le relazioni familiari (Mazzei, 2002).
Il conflitto risulta una parte costituente delle relazioni e dei sistemi umani. Secondo l’ottica sistemico-relazionale, le relazioni umane sono regolate da criteri di senso, cioè confini del sistema nel quale l’individuo è inserito (Luhmann, 2000). Per Luhmann, il senso è il codice interpretativo ermeneutico, intrasistemico e intersistemico ed è la base dell’identità dei sistemi.
All’interno di una coppia, la libertà di ogni membro di interpretare, secondo il proprio criterio di senso, gli accadimenti hanno in contrapposizione la non conoscenza del criterio di senso dell’altro. Al momento in cui le parti diventano consapevoli della diversità del proprio criterio di senso e di quello altrui e al momento in cui non vi è accettazione di questa diversità, nasce il conflitto.
Glasl (1982) sottolinea caratteristica del conflitto la sua trasformazione da privato a pubblico, in cui l’altro (il “nemico”) appare nell’ambiente sociale come il colpevole, colui che è nel torto e che deve perdere il rispetto altrui.
Glasl descrive nove fasi del conflitto: (1) il riconoscimento di differenze e di incomprensioni; (2) ciascun membro evidenzia i fatti, e non le parole, che rimandano a una posizione socialmente corretta e giusta; (3) la ricerca di elementi che difendono la propria immagine; (4) ogni posizione presa si irrigidisce ed è presente la tendenza a vedere l’altro come il “diavolo”; (5) gli eventi casuali sono interpretati come accadimenti che sminuiscono l’altro pubblicamente; (6) le energie vengono impegnate nello sforzo di danneggiare l’altro e di rafforzare pubblicamente la propria immagine; (7) la fase di disperazione: volontà di distruggere economicamente, giuridicamente e psicologicamente l’altro; (8) la frammentazione del nemico; (9) la fase “insieme nell’abisso”: agisce l’istinto di sopravvivenza che spinge a salvarsi ed ad annichilire l’altro. L’unico interesse è che l’altro cada.
Lo spettatore del conflitto è all’interno dell’ambente sociale della coppia e comprende i figli, i familiari, i parenti gli amici, ma anche professionisti. I litiganti hanno bisogno di “aver ragione”, che questa sia loro riconosciuta e che il pubblico li assecondi portando loro conforto e schierandosi dalla loro parte. I litiganti vestono il ruolo di attore e restano attaccati ai loro personaggi, sempre uguali, e seguono il rigido copione del dramma vissuto.
Nel conflitto “assoluto”, che non trova soluzione, ciascun membro della coppia in questione resta statico nel proprio punto di vista senza uscire dal vincolo autoriflessivo (un esempio è la separazione giudiziale). Mentre dall’esterno, il conflitto è visto come irrazionale, anche se per chi lo vive, la sua posizione è corretta e si continuano ad impegnare le proprie energie affidandosi alla razionalità delle mosse e contromosse: “l’altro è irrazionale e io sono razionale”, “io ho ragione, l’altro ha torto” (Francini, 2014).
L’errore sta nel considerare la razionalità come valore assoluto, piuttosto che abbracciare la via dell’irrazionalità. Legata al mito del libero arbitrio, la razionalità è l’esito di un bisogno di rassicurazioni dell’uomo, che porta alla visione del “tutto è possibile”. In realtà, è errato credere nel “tutto è possibile”, perché conduce a colpevolizzare sé stessi o altro di non riuscire a trovare una via di uscita. Invece, se pensiamo alla libertà come ad una rosa di scelte fra possibilità finite, allora il caso entra nella nostra vita come elemento non controllabile. Per cui, nel conflitto, accettare l’irrazionalità come parte della realtà, implica accettare di confrontarsi, di mettersi in gioco, di esprimere sentimenti. Nel conflitto assoluto, l’insistenza sull’irrazionalità dell’altro equivale alla negoziazione della diversità, alla perdita di libertà di chi non riesce più ad utilizzare i suoi strumenti e l’interezza della sua persona (Francini, 2014).
Di per sé, il conflitto non impedisce la conoscenza, ma è la mancanza di disponibilità di ascolto e l’impossibilità di vedere l’altro da un altro punto di vista, che rende tutto immobile e fisso. Si individuano due tipi di conflitti: uno in cui vi è la possibilità di ascolto ed l’ altro in cui ognuno mantiene il suo ruolo da copione; la differenza fondamentale fra i due è che nel primo caso è riconosciuta l’esistenza e la presenza dell’altro nella relazione, mentre nell’altro caso l’ altro è assente.
Soltanto nella reciprocità della relazione si ha la possibilità di disgelamento di sé e dell’altro, riconoscendosi in un modo nuovo e diverso da quello che si è sempre conosciuto. Quando la coppia depone l’ascia di guerra e si incontra, fa un salto verso una nuova conoscenza di sé. L’essere in situazione di reciprocità permette di svelare la relazione, conoscerla e conoscersi; l’elemento chiave è l’esperienza di stare lì all’interno di quella stessa esperienza insieme all’altro e poter quindi usufruire dell’esperienza dell’altro. Quando l’esperienza di reciprocità è colta, le rispettive sensazioni, i pensieri e le connessioni riescono ad essere comunicate da entrambi i membri.
La restituzione dell’esperienza di reciprocità è svolta dal mediatore, che ripropone la storia dell’altro condivisa da entrambi i litiganti. Inoltre, poiché è riproposta da un elemento esterno al sistema della coppia, appartenente ad un atro sistema, con propri criteri di senso ed un proprio vissuto, la rielaborazione dell’esperienza della coppia è influenzata dalle riflessioni del mediatore, dalle sue conoscenze e dai suoi vissuti. Il mediatore rielabora i fatti, i vissuti affettivi e i significati emersi nell’incontro fra la sua persona e la coppia, che le ha riportate. Il tutto passa attraverso le parole, ma anche attraverso immagini, significati, para-verbale e non verbale. La rielaborazione è soltanto un punto di vista della storia raccontata e rielaborata, non è una verità pura ed assoluta, è una collusione di vissuti.
Ma, chi è il mediatore? Egli è un osservatore esterno inserito nella conflittualità della coppia. Non deve essere inteso come un osservatore obiettivo, neutrale ed imparziale, ma collocato all’interno del sistema familiare osservato, diventando così un elemento fondamentale al suo interno. Il mediatore è un professionista che possiede dei modelli interiorizzati di relazione rispetto a tutto ciò che concerne la coppia: la coppia stessa, il conflitto, la separazione, la relazione, l’intimità. Nell’intervento, il suo interesse è quello di riuscire a cogliere e porre le distanze fra sentimenti, pensieri, emozioni che sente come propri e quelli che sente come propri dei membri della coppia. Solamente attraverso la consapevolezza del proprio funzionamento, ovvero dei propri modelli interiorizzati di relazione, e dei propri temi sensibili, per il professionista è possibile evitare la confusione, intesa come incapacità di distinguere i sentimenti, le emozioni, i pensieri che gli appartengono e quelli che appartengono ai membri della coppia.
Come suggerisce Elkaim (1999), nell’intervento è importante cogliere le risonanze: elementi comuni che appartengono ai vissuti del mediatore e contemporaneamente possono appartenere alla coppia, o a uno solo dei suoi membri. Nel caso in cui questi elementi di risonanza non siano riconosciuti, questi favoriscono un pericoloso spostamento da una posizione di equidistanza ad una di imparzialità; mentre, se identificati, questi costituiscono un potente strumento di comprensione, in quanto, aumentano la sua capacità del professionista di cogliere i movimenti relazionali della coppia.
Nell’intervento, il mediatore che lavora in separazione e/o divorzio: tenta di salvare il legame fra generazioni (matrice di identità e custode di equilibrio psichico) ed opera per assicurare la continuità della funzione genitoriale. La complessità del lavoro nel tenere insieme degli aspetti della separazione e la cura ed il mantenimento della genitorialità: la sfida è ricercare un punto di raccordo fra la co-genitorialità e lo scioglimento della relazione di coppia.
I neuroni specchio ed il linguaggio implicito
Oggigiorno, le continue evidenze nel campo delle neuroscienze rendono difficile non integrare le scoperte scientifiche al lavoro in mediazione ed in psicoterapia. Diversi autori (Etkin et al, 2005; Roffman et al., 2005) hanno evidenziato che la psicoterapia produce dei cambiamenti strutturali a livello cerebrale attraverso la formazione di nuove connessioni sinaptiche. Sembra, quindi, che li interventi psicoterapeutici portino a significative modifiche all’interno del cervello, risultato che fino ad ora era stato osservato a termine degli interventi farmacologici (Gabbard, 2010) ed era solo stato ipotizzato dalle varie scuole di psicoterapia, trovando infine non ha trovato i suoi primi riscontri empirici. Negli anni ’90 il gruppo di lavoro del neuroscienziato Giacomo Rizzolatti giunse alla scoperta di un particolare gruppo di neuroni, situati nella corteccia pre-motoria, area F5, dei macachi. Questi neuroni furono chiamati neuroni specchio perché si attivavano quando l’animale eseguiva un’azione finalizzata e, soprattutto, quando questo osservava la stessa azione eseguita da un altro macaco.
Con la fRMI, è stata dimostrata la presenza di questi neuroni anche nel cervello umano, precisamente nelle regioni corticali parietali e pre-motrici, e le loro specifiche funzioni: il controllo dell’esecuzione di un movimento e la comprensione del movimento stesso. Queste funzioni quindi non sono circoscritte solo al riconoscimento dell’azione altrui, ma anche al comprendere il perché dell’azione, ovvero al riconoscimento dell’intenzionalità legata a quell’azione. Come afferma Rizzolatti (2006), questi processi cognitivi non sono legati fra loro, ma sono strutturati in modo che non sia possibile comprendere i sensi e le intenzioni altrui sulla base di ciò che fa se non è possibile imitare e riprodurre le azioni osservate attraverso il nostro corpo. L’esistenza di questo meccanismo di rispecchiamento e di riconoscimento di ciò che fa l’altro ha permesso di dimostrare l’esistenza di fenomeni e concetti rimasti senza evidenza empirica fino ad ora, quali l’empatia, l’identificazione, la comprensione delle intenzioni altrui. È stata dimostrata così nell’individuo la capacità innata e programmata di internalizzare, incorporare, assimilare ed imitare l’altra persona, ed i neuroni specchio sono alla base di questa capacità.
Successive evidenze scientifiche hanno collegato altre funzioni ai neuroni specchio, quali la comprensione linguistica e la capacità di vivere in riflesso le emozioni e le sensazioni altrui. Vivere in riflesso le emozioni e le sensazioni altrui ha delle importanti implicazioni in psicoterapia: quando la persona davanti a noi manifesta uno stato emozionale di sofferenza, possiamo comprenderlo condividendo nel nostro corpo lo stesso dolore. Secondo Gallese, Migone e Eagle (2006), l’uomo vive uno stato di sintonia intenzionale, generando una qualità particolare di familiarità con gli altri individui, perché «attraverso lo stato funzionale condiviso da due corpi differenti che nonostante obbediscano alle stesse regole di funzionamento, l’”altro oggetto” diviene un altro me stesso». Gallese introduce il concetto di simulazione incarnata, un meccanismo cruciale mediato dall’azione dei neuroni specchio. Grazie alla simulazione incarnata, l’individuo non solo vede la manifestazione dell’emozione dell’altro, come le risa od il pianto, contemporaneamente dentro di sé si crea una rappresentazione interna degli stati corporei associati e condivisi a quelle emozioni viste, “come se” fosse l’osservatore a compiere quell’azione od a provare quell’emozione. Citando Gallese, “l’emozione dell’altro è costituita dall’osservatore e compresa grazie a un meccanismo di simulazione che produce uno stato corporeo condiviso nell’osservatore con l’attore di quella emozione. È condivisione dello stesso stato corporeo tra osservatore e osservato a consentire questa forma diretta di comprensione, che potremmo definire empatica” (Gallese, Migone e Eagle, 2006).
Le scoperte neuroscientifiche propongono un’immagine dell’essere umano come un essere biologicamente predisposto alla intersoggettività e alla relazione. È parlando di relazione che ci ricolleghiamo all’approccio sistemico-relazionale, che vede nella relazione la matrice che permette l’apprendimento e i processi di conoscenza attraverso il contesto interpersonale, dal quale essa dipende. Infatti, i neuroni specchio hanno ampiamente dimostrato l’esistenza di un profondo legame fra il sé e l’altro, tale che “un Io non può esistere senza un Noi” (Rizzolatti & Sinigaglia, 2006). Anche Stern (2006) ha riconosciuto alle neuroscienze il merito di aver dimostrato che la mente umana è creata dall’interazione di desideri, dei pensieri, delle azioni e delle credenze altrui; infatti, l’uomo è a conoscenza di qualcosa sulla sua mente solamente quando interagisce con l’altro poiché “egli stesso non esiste se non interagisce”.
I processi mentali non si generano solamente lungo un dominio di consapevolezza, ma includono anche delle conoscenze e delle esperienze di apprendimento non consapevoli, che prendono il nome di “conoscenza relazionale implicita” (che si manifesta attraverso il non-verbale e l’emozione) e che si sviluppa parallelamente a quella esplicita. La creazione delle conoscenze relazionali implicite comincia dalle prime interazioni del bambino con le figure di riferimento: gli elementi e i contenuti di queste interazioni andranno a formare tale conoscenza creando ricordi emotivi e affettivi, che saranno trattenuti ed immagazzinati nella memoria implicita (Onnis, 2009).
Nel lavoro in mediazione familiare, l’inclusione del concetto di memoria implicita nel trattamento della coppia e della famiglia ha portato un grande vantaggio nel disvelamento di ricordi ed emozioni profonde rimasti latenti fino al momento dell’intervento. I ricordi emotivi legati all’esperienze non elaborate a livello cosciente sono quelli immagazzinati all’interno della memoria implicita. La conoscenza reazionale implicita richiede l’intervento dei neuroni specchio che attivano il processo di rispecchiamento reciproco delle emozioni e degli stati mentali di ciascun membro. Così, la conoscenza relazionale implicita diviene condivisa sollecitata dall’esperienza della relazione terapeutica, cui intervento permette un momento di confronto fra le parti coinvolte (mediatore e coppia/famiglia).
Sappiamo che la funzione dei neuroni specchio è quella di registrare e riflettere tutte le componenti implicite presenti nella relazione terapeutica e che, quando si lavora con la coppia/famiglia, questi costituiscono delle storie e delle trame ancora più articolate. È la coerenza della narrazione implicita che si svolge nel corso del lavoro con immagini e metafore che permette la sintonizzazione affettiva fra il mediatore familiare ed i membri della coppia/famiglia. In più, l’attivazione dei neuroni specchio necessità della relazione con il terapeuta e di quella fra i membri della famiglia. Nella relazione terapeutica, l’intersoggettività e l’empatia sono rese possibili grazie ai meccanismi di simulazione incarnata dei neuroni specchi e permettono che la mente di ciascun membro della relazione sia compreso dall’altro. Ciascun rispecchiamento, permette la manifestazione di un vissuto, di un’emozione latente, e ogni rispecchiamento è capace di apportare qualcosa di differente e di nuovo, ponendo le basi per il cambiamento. Questa risonanza che si ha è un fenomeno esplicativo di elementi comuni e simili nei differenti sistemi in relazione rappresentati dal terapeuta e dalla famiglia, ciascuno con il proprio bagaglio affettivo e con la propria storia personale. La risonanza non richiede solo la condivisione di emozioni, ma un lavoro di elaborazione cognitiva ed emotiva per costruire un’opportunità di trasformazione, attivando la memoria implicita.
La pratica clinica ha mostrato dei vantaggi nell’uso del linguaggio implicito col fine di portare ad un livello di consapevolezza maggiore le memorie implicite toccando così la sfera emotiva oltrepassando il canale della parola. Per raggiungere questo obiettivo, vengono utilizzate metafore ed immagini, ritenuti i punti di congiunzione che consentono ad emozioni, affetti e miti familiari di fuoriuscire dalla non consapevolezza.
L’uso di immagini d’arte in mediazione familiare
La mediazione familiare ad orientamento sistemico-relazionale ha da sempre utilizzato tecniche per l’assesment familiare che includessero l’uso di uno stimolo visivo simbolico; fra queste ricordiamo: il genogramma, il genogramma fotografico, la scultura, il collage, le immagini d’arte. Il mediatore conduce una ricostruzione delle dissonanze e delle discrepanze fra ciò che i pazienti dicono e ciò che i pazienti esprimono attraverso il canale del non verbale, attraverso ipotesi relazionali, cui livello di accuratezza diventa più evidente con il progredire dell’intervento. L’immagine favorisce un primo livello di rappresentabilità, stabilendo fra il soggetto e la sua storia relazionale una distanza che permette l’ascolto ed il dialogo, ed attraverso questa è possibile dare accesso ai mondi interni, spesso non raggiungibili e difesi dall’uso del canale verbale (Leporatti, 2016).
L’uso dello stimolo visivo per il disvelamento del mondo interno è caratteristico del test proiettivo. L’assunto di base del test proiettivo è che i processi componenti la struttura della personalità possano essere proiettati sul materiale-stimolo, permettendone la loro descrizione. Essendo lo stimolo del test vago o poco strutturato, viene lasciata al paziente la possibilità di rispondere liberamente alla consegna. Si presuppone che durante la consegna, il paziente percepisca ed elabori lo stimolo, così che in modo inconsapevole memorie, sentimenti, emozioni latenti e conflitti irrisolti fuoriescano dall’elaborazione dello stimolo stesso.
È importante sottolineare che le tecniche della mediazione differiscono da un test proiettivo come il TAT od il Rorschrach, poiché non hanno né finalità diagnostica né di raccolta dati, piuttosto sono un aiuto al lavoro del mediatore sistemico, là dove il canale della parola e della comunicazione verbale appaia fermo e saturo, senza permettere un progresso od un cambiamento nell’intervento (Granieri, 2010).
L’immagine è un modo di dare rappresentabilità a qualcosa che il soggetto manifesta attraverso i vissuti e gli agiti, ed anche un modo di articolare parti di sé e dell’altro secondo un’elaborazione soggettiva. Attraverso le immagini, la memoria e l’identità della persona e della famiglia sono conservate. La rappresentazione del sentito e del passato attraverso l’immagine simbolica diventa l’oggetto collocato nello spazio e nel tempo grazie al quale si rende presente ciò che è assente. Il suo potere consiste nella sua capacità di raggiungere un componente affettiva della personalità normalmente è ben difesa per essere conosciuta.
Attraverso l’uso di queste tecniche di supporto all’intervento, l’uso del linguaggio implicito approda nella sfera emozionale emozioni, analogicamente e implicitamente. L’immagine permette l’ascolto, la riflessione ed il dialogo, consentendo l’accesso a mondo interni e l’articolazione di parti di sé e dell’altro. Infatti, in mediazione queste tecniche fanno emergere dei miti e dei fantasmi delle famiglie a cui la parola non può avere accesso diretto se non in modo implicito.
Per mezzo dell’immagine, il mediatore esplora con i pazienti il sistema familiare, la relazione con il Sé, il mondo interno e con l’inconscio ottico, usando il suo Sé, nella dinamica coppia-terapeuta e nel “qui ed ora” della terapia. Attraverso l’uso del Sé il terapeuta entra nella relazione terapeutica, in modo autentico ed empatico stando con i pazienti e sentendo con loro le emozioni suscitate dalle immagini scelte.
L’immagine ha ricoperto un ruolo cardine negli strumenti per il lavoro con la famiglia, fra questi ricordiamo: il genogramma, il genogramma fotografico, la scultura, il collage, le immagini d’arte.
Bowen (1979) vedeva nel genogramma uno strumento prezioso nel lavoro col paziente. Questo strumento consiste nella creazione dell’albero genealogico schematico della famiglia del paziente, rappresentato su di un cartellone, con simboli specifici indicanti i vari eventi della vita di ognuno degli individui che compaiono sul cartellone (vita, morte, matrimonio, divorzio, lavoro, figli). La rappresentazione grafica della famiglia e dei suoi membri permette alla persona di rileggere la propria storia familiare riflettendo e collegando fra loro storie, miti ed eventi carichi emotivamente dalle informazioni date. Attraverso il genogramma, Bowen costruisce la storia familiare, focalizzandosi su sintomi e problemi che si sono stabilizzati nel corso delle varie generazioni.
Altro tipo di genogramma è quello fotografico utilizzato da De Bernart, in cui storia familiare è riproposta attraverso 30 fotografie di almeno tre generazioni. L’insieme delle foto rappresenta un momento significativo, poiché porta le persone a ricercare eventi familiari dimenticati. È uno strumento utilizzato per aiutare il riconoscimento delle modalità relazionali all’interno degli schemi familiari ed agevolare la comprensione della trasmissione dei modelli familiari (De Bernart, 2004).
Altro strumento è il collage, il quale permette al mediatore di cogliere nella coppia le aree di conflittualità, l’idea di coppia di ciascun membro, ed in particolari situazioni d’impasse e far emergere contenuti non emersi in precedenza. Lo strumento consta di un cartoncino 50 x 70 e viene richiesto alla coppia di scegliere e ritagliare delle foto, parole o forme da riviste e giornali che evochino in loro la propria idea di coppia. Il compito deve essere svolto individualmente e segretamente da ciascun membro. Una volta conclusa la selezione, la coppia torna all’incontro ed il mediatore invita alla lettura incrociata dei due collage così che ciascun membro diventi consapevole dell’idea di coppia propria e dell’altro. A conclusione della lettura del collage dell’altro, chiesto ad ognuno quanto ha sentito simile il collage del partner (De Bernart, 2004).
Andolfi (1977) definisce la scultura come una modalità non verbale, creativa e dinamica tramite la quale la persona rappresenta le proprie relazioni con la famiglia e le relazioni dei suoi membri fra loro, in un dato momento e in un dato contesto. In altre parole, la scultura è la rappresentazione simbolica del sistema familiare. Secondo l’autore, la scultura permette di “ricreare simbolicamente nello spazio gli stati d’animo e rapporti emotivi, attraverso una rappresentazione tridimensionale delle relazioni fra i membri della famiglia.”. La tecnica della scultura è permette di mettere a fuoco gli aspetti comuni ad ogni sistema, ovvero lo spazio, il tempo e l’energia.
Onnis (2012) parla della scultura familiare in termini di strumento supportivo. La consegna data alla famiglia è quella di rappresentare visualmente e spazialmente delle statue raffiguranti i suoi membri modificando la disposizione dei corpi nello spazio, il modellamento degli atteggiamenti, della fisionomia e delle posture, la vicinanza e la distanza dei corpi, la direzione degli sguardi. È una rappresentazione analogica e non verbale che può essere seguita da commenti dei membri della famiglia sui loro vissuti, ma soltanto a termine della realizzazione delle sculture. Ciò che è interessante è la dimensione temporale: nella consegna si richiedono 3 tipi di sculture- del presente, del passato e del futuro- al fine di comprendere e di reintrodurre la dimensione del tempo che la famiglia sembra aver perduto.
Pur non avendo l’etichetta di test, l’utilizzo di immagini d’arte in mediazione familiare ha portato ad un notevole aiuto nella pratica clinica e terapeutica là dove se ne è visto necessario il suo uso. Nato quasi per caso durante una seduta psicoterapeutica in una fase di stallo, oggi il “test” è in sperimentazione presso diversi Istituti di Terapia Familiare italiani ed in Europa. L’intento del lavoro è quello di fornire uno strumento di natura proiettiva e di supporto all’attività clinica e alla relazione terapeutica. Alla sua creazione, il “test è stato utilizzato in psicoterapia; successivamente, è stato adottato nel lavoro con le coppie ed in mediazione familiare. (Leporatti, 2016).
Lo strumento è composto da un book di 200 immagini suddiviso in 20 categorie: bambino, casa, cibo, coppia, DCA, famiglia, fratelli, genitori, gioco, identità di genere, individuo femminile, individuo maschile, lavoro, madre, malattia, morte, nonni, padre, sesso, vecchiaia.
In base ai diversi setting, si selezionano specifiche categorie:
- Coppia: coppia, individuo femminile, individuo maschile, sesso, cibo, famiglia.
- Coppia genitoriale: famiglia, padre, madre, bambini/fratelli (se presente nel nucleo familiare), genitori.
- Famiglia: famiglia, genitori, bambino/fratelli (se presenti nel nucleo familiare), nonni, casa.
- Disturbi del Comportamento Alimentare: cibo, madre, padre, bambino/fratelli (se presenti nel nucleo familiare), DCA.
- Psicosi e Borderline: malattia, sesso, cibo, genitori, morte.
- Depressione: famiglia, malattia, morte, cibo, bambino.
- Attacchi di panico: famiglia, vecchiaia, cibo, lavoro, gioco.
- Problemi di coppia e problemi sessuali: sesso, coppia, identità maschile, identità femminile, identità di genere.
- Fobie scolari: bambino, gioco, casa, genitori, cibo.
- Problemi di comportamento: bambino, gioco, famiglia, fratelli, nonni.
- Deficit di attenzione e iperattività: bambino, padre, madre, fratelli.
Una volta selezionata la categoria, sulla base del setting, le immagini sono presentate ai membri della coppia con la seguente consegna del mediatore: “Scelga un’immagine d’arte che senta possa rappresentarla o rappresentare i suoi stati d’animo”. Alla persona è dato del tempo per scegliere un’immagine per ogni voce (2 minuti per categoria), motivando la scelta di ogni immagine (dati 3 minuti ad immagine). In seguito, si prosegue con la lettura incrociata, in cui ciascun membro dà la propria lettura dell’immagine scelta dal partner; in questo modo, si favorisce il decentramento cognitivo e la capacità di mettersi nei panni dell’altra persona. Come riportano le esperienze dei professionisti che hanno lavorato con lo strumento, vi è una coerenza fra la narrazione implicita della storia della coppia e la scelta delle immagini in riferimento: emozioni, sentimenti e conflitti profondi e latenti riescono a fuoriuscire dal non verbale ed a manifestarsi attraverso la parola, grazie alla rielaborazione del mediatore e alla risonanza che emerge dalle immagini scelte.
Con l’uso delle immagini d’arte, il mediatore riesce a dar voce alla potenza evocativa dell’immagine selezionata che richiama nella persona componenti emotive e affettive rimaste latenti per tanto tempo e non consapevoli, permettendo alla coppia una restituzione dei sentiti e dei vissuti non compresi e non condivisi dai membri, concedendo così alla coppia una condivisione esplicita.
Di seguito ed a conclusione, è portato ad esempio un intervento, condotto dalla Dott.ssa C. Leporatti (2014), su una coppia in mediazione con l’uso delle immagini d’arte.
IL CASO DI MARA E FRANCO**
Mara e Franco si rivolgono a me per un percorso di mediazione in fase di separazione, separazione che desidererebbero potesse essere consensuale. Mara fa grande fatica a parlare davanti a Franco e non riesce ad esprimere le sue emozioni ed i suoi disagi nell’incontro con il marito. Franco è rancoroso e ostile verso Mara e non riesce a comprendere la sua sofferenza, nonostante sia ella stessa che ha scelto di separarsi. Non sono presenti altri partner. Mara e Franco lavorano insieme in uno Studio Associato, nel quale Mara esercita la professione di Avvocato e Franco la professione di Commercialista. Confliggono in merito alla regolamentazione del regime di frequentazione della loro figlia, Eleonora. Decido di introdurre l’uso delle immagini d’arte poiché il canale verbale è decisamente saturo e le parti non riescono ad effettuare alcun tipo di decentramento cognitivo, passando dalla propria posizione alla possibilità di mettersi per breve tempo nei panni dell’altro. Presento la categoria delle immagini d’arte COPPIA e chiedo ad entrambi di scegliere un’immagine che rappresenti la relazione con l’altro durante la crisi:
- Mara sceglie “P.Gandolfi, Tenebre Invisibili, 1995”
- Franco sceglie “Chagall, La passeggiata, 1917-18”
Chiedo successivamente a Franco di commentare l’immagine scelta da Mara. Lui rimane a lungo silenzioso e poi dice “Forse Mara intende dire che non è stato facile per lei chiedermi delle cose che le facevano piacere”.
Chiedo a Mara di dire perché secondo lei Franco ha scelto questa immagine. Lei dice “Lui pensa che io sia una sciocca che non ha i piedi per terra e non ha capacità di portare avanti con determinazione il proprio lavoro”.
Lavoriamo su questi aspetti, chiedo poi a ciascuno di esprimere le reali motivazioni per cui ha scelto quell’immagine: – Mara dice di aver scelto quell’immagine perché è così che si è sentita in tutto il periodo della crisi, fino alla decisione di separarsi. Lei afferma “Non potevo parlare, sentivo non tanto lo sguardo coperto quanto la testa schiacciata rispetto ai miei desideri nei confronti di ciò che Franco desiderava per noi, sia all’interno del matrimonio che nell’ambito lavorativo” – Franco dice di aver scelto quest’immagine che rappresenta effettivamente come lui senta Mara, senza piedi per terra e senza capacità di portare a termine un progetto. Invito entrambi a riflettere su quali altri aspetti possono stare dietro la scelta dell’immagine che hanno fatto e dopo una lunga meditazione:
- Mara dice “forse l’immagine che ho scelto sta ad indicare il fatto che un tempo con Franco condividevo un sogno, che poi non sono stata più capace di vedere”.
- Franco, dopo un ancor più lunga meditazione, dice “forse Mara un tempo costituiva la leggerezza che in genere mi manca”.
L’apertura manifestata sul piano emotivo da entrambe le parti, mi consente di chiedere loro di scegliere un’immagine che rappresenti cosa pensano dell’altro come GENITORE:
- Dalla Categoria PADRE Mara sceglie “E. Schiele, H. e il suo figlio Otto, 1913”
- Dalla categoria GENITORE Franco sceglie “P. Gaugin, Le Marie, 1891-92”
Chiedo di nuovo a ciascuno di dire perché l’altro può aver scelto quell’immagine:
- Franco dice “Mara ha scelto quell’immagine perché pensa che io sia sempre stato condizionato da mio padre nelle scelte della mia vita”.
- Mara dice “Franco ha scelto quell’immagine perché pensa che da quando è nata Eleonora, io non ho avuto occhi che per la bimba ed ho perso di vista lui”.
Chiedo poi ad entrambi il perché delle loro scelte:
- Mara dice “In essa è rappresentato un figlio succube del padre e in protezione di sé, ma anche allo stesso tempo un padre direttivo così come io sento che Franco è nei confronti di Eleonora; una direttività rigida e senza spazi per le proposte di Eleonora”.
- Franco dice “Sento che Mara da quando è nata Eleonora, non ha occhi e attenzioni che per lei e penso che le donne sullo sfondo siano un po’ le donne che progressivamente si sono allontanate da me, nello specifico mia madre e mia sorella”.
Chiedo a questo punto ad entrambi di scegliere un’immagine che rappresenti la loro FIGLIA in questa fase della loro separazione:
- Mara sceglie “N. Rockwell, Girl at mirror, 1954”
- Franco sceglie “N. Rockwell, Girl with black eye, 1953”
- Franco dice “Mara ha scelto quest’immagine perché Eleonora è vanesia come lei”.
- Mara dice “Franco ha scelto quest’immagine perché lui vede Eleonora goffa e impacciata esattamente come me”.
Chiedo la motivazione per cui effettivamente ciascuno ha scelto:
- Mara dice “Eleonora è grande e Franco deve rendersene conto. Eleonora è un’adolescente, non è più una bimba ed ha bisogno di essere rispettata nei suoi desideri. Orientata e obbligata a rispettare le regole, ma anche ascoltata”.
- Franco dice “Rappresenta la curiosità e il desiderio di mettersi sempre in gioco che è proprio di Eleonora. In questo riconosco che Eleonora porta la forza che mi caratterizza e la leggerezza e l’ironia che talvolta caratterizzano Mara”.
A questo punto riusciamo a costruire un’intesa dei bisogni di Eleonora, adolescente di 12 anni, alle soglie della pubertà, che necessita di essere ascoltata e rispettata nei suoi desideri, oltre che orientata. Spendiamo l’intera seduta sull’organizzare il diritto di visita che preveda tempo adeguato di presenza del padre con Eleonora e della madre con Eleonora, con domiciliazione prevalente di Eleonora presso la madre. In origine il padre chiedeva che la madre se ne andasse da casa in quanto era lei che aveva chiesto la separazione e che Eleonora fosse domiciliata prevalentemente presso di lui.
** Il caso è stato presentato dall’autrice al Congresso Mondiale di Mediazione di Genova (22-27 settembre 2014.
Roberta Cambi
Bibliografia
Andolfi M. (1977). La terapia con la famiglia. In: Leporatti, C. La luna ed i falò. Uso di immagini d’arte in psicoterapia individuale e di coppia ad orientamento sistemico-relazionale. Terapia Familiare, 111, luglio 2016.
Bowen, M. (1997). Dalla famiglia all’individuo. In: Leporatti, C. La luna ed i falò. Uso di immagini d’arte in psicoterapia individuale e di coppia ad orientamento sistemico-relazionale. Terapia Familiare, 111, luglio 2016.
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